error_reporting(0); La letteratura e il ’68 – Intervista a Francesco Pecoraro

A cura di Luca Padalino

1)     In occasione del cinquantenario del Sessantotto le celebrazioni e i momenti di riflessione su detto fenomeno storico sono stati molteplici. Tra le numerose affermazioni in proposito, mi ha colpito quella di Giancarlo De Cataldo, secondo il quale la Contestazione non gode oggi di una mitopoiesi adeguata alla sua effettiva portata. Rispetto ad altri eventi della nostra storia nazionale -dall’Unità all’Occupazione alla Resistenza – mancherebbe insomma intorno al Sessantotto una tensione narrativa adeguata a raccontarne le vicende, i contenuti ideologici, i protagonisti. Volevo chiederti, per cominciare, se avverti lo stesso tipo di problema, se il rimedio a tale carenza sia rintracciabile in letteratura, e quanto sia corretto chiederne conto ad uno scrittore che si appresti a parlare oggi di Sessantotto.

 

Credo che il motivo risieda nel fatto che gli eventi sessantotteschi e le loro conseguenze storiche sono o sottovalutati o sopravvalutati. Insomma in questi tempi di rievocazioni mi è sembrato di percepire una mancanza di centratura del giudizio storico su una serie di eventi che ormai risale a cinquant’anni fa, dunque abbastanza lontani da poter essere valutati in una prospettiva corretta e scientificamente un po’ più rigorosa di quanto attualmente non sia. Le ragioni probabilmente risiedono nella oggettiva difficoltà di interpretazione delle sue conseguenze storiche, quindi culturali politiche antropologiche, di cui esistono una lettura di destra, in cui al sessantotto si attribuiscono tutte le malattie del presente, contrapposta a una lettura di sinistra, secondo la quale gran parte della modernizzazione laica e progressista che investì l’Italia nei Settanta ha origine da lì. Insomma, se tutto il male o tutto il bene dell’oggi sarebbero un lascito del Sessantotto, c’è qualcosa che non va nella lettura di quegli eventi. Poi c’è una questione cruciale che riguarda l’ideologia sessantottara: era in forme diverse intrisa di un estremismo comunista che oggi è difficilmente concepibile, quindi difficilmente trasmissibile, cioè narrabile. Insomma il vero sessantotto era ideologico e l’ideologia oggi non interessa nessuno: l’eroe sessantottesco, o almeno quello che ho conosciuto io, non è stupido ma è schematico, cioè è intelligente ma solo all’interno del recinto ideologico dove si rinchiude come in un fortilizio anti-borghese. Oggi è molto difficile che anche una conversazione informale tra giovani di quegli anni possa risultare non solo interessante, ma soprattutto comprensibile. Tutta la pochissima fiction sessantottica soffre infatti di una sostanziale, ma per certi versi necessaria, inautenticità di dialoghi e personaggi. Per avere un’idea della schematicità ideologica dei nostri discorsi di allora può giovare la visione de La cinese, di Godard, film interessante ma che ricordo noiosissimo. Se sei un comunista schematico e palloso, come eravamo noi, difficilmente puoi diventare un protagonista interessante, sia in chiave negativa che positiva. Se poi sei un appartenente alla lotta armata degli anni successivi, sei ancora meno interessante. C’è un enorme serbatoio di materiale storico e romanzesco che al momento risulta obliterato. Se sacrifichi la tua vita a un ideale che nel corso di un paio di decenni diventa inconcepibile, allora sei narrativamente morto, perché nessuno si interesserà a te e a quello che hai fatto, si badi bene, non nel tuo interesse, ma in quello della rivoluzione. L’individuo che si auto-annienta in nome di una prospettiva politica o di un principio religioso attrae la nostra attenzione solo se ne condividiamo i valori. Sarà invece molto più interessante metti il camorrista, perché almeno si capisce che quello che fa lo fa per i soldi. E i soldi sono un valore per tutti. Per capire questa distanza culturale consiglierei la lettura in sequenza cronologica dei documenti politici prodotti da quello che genericamente chiamerei il Movimento nell’arco del decennio 1967-’78. Più i materiali del terrorismo.

 

2)     Uno dei passi che più mi ha colpito, in La vita in tempo di pace, ruota intorno agli anni della contestazione universitaria a Roma. Qui il giovane Ivo Brandani coglie presto il persistere tra i comitati studenteschi di un habitus di sopraffazione e di istintiva e rigida gerarchizzazione, un’ estenuante lotta per il comando articolata sulla buona riuscita del discorso pubblico, sull’esito d’una performance orale che è poi anzitutto fisica. Sembra delinearsi così la necessità d’un tale aspetto del consorzio sociale, di tensione, diremmo, antropologica e metastorica. È corretto definirlo in questi termini? È al contrario possibile individuarvi un riflesso della pregressa cultura fascista, che resta sostrato esistenziale ed educativo irreparabile per la generazione che fece il Sessantotto?

La mia generazione è nata dopo la guerra, dopo il fascismo, in pieno clima democratico e anti- fascista e si è formata negli anni in cui nasceva la cultura rock, col suo anti-autoritarismo libertario e anarcoide. I più colti tra noi avevano letto gli scritti della beat-generation, dell’esistenzialismo e del situazionismo, della scuola di Francoforte, eccetera. Il terreno su cui crebbero i temi della contestazione sessantottesca era già formato e dissodato da almeno un decennio di nuove culture giovanili, di cui il ’68 fu il prodotto per così dire politico, lo sbocco anti-autoritario conclamato: non ci si opponeva più solo al proprio padre, ma in generale, ai nostri padri: biologici, politici, religiosi, culturali, eccetera. Tuttavia, direi fatalmente, quando il Movimento studentesco cominciò ad esistere in quanto organizzazione, sia pure molto embrionale, al suo interno si formarono spontaneamente degli abbozzi di gerarchie. O almeno così mi parve. Ci ho pensato su per molti anni e sono arrivato alla conclusione che si trattasse di spirito gregario puro e semplice. Chi aveva qualche strumento di elaborazione politica era portato a usarlo. Il risultato fu una prevalenza di pochi sui molti: fenomeno blando ma presente: i più bravi dirigevano, formavano gruppi ristretti, commissioni e comitati non aperti a tutti com’era invece quasi tutto il resto, da cui proveniva la linea da proporre in assemblea.  Si trattava di un fare politica necessario, all’interno di una massa magmatica di menti dentro le quali passava di tutto, che senza direzione non sarebbero andate da nessuna parte. In ogni università del centro-nord d’Italia (stiamo naturalmente parlando della versione italiana di un fenomeno mondiale) si formarono gruppi dirigenti studenteschi. In questa gerarchizzazione non c’era nulla di fascista, mentre c’era molto della natura umana: qualsiasi gruppo che abbia una comunanza di scopi ha bisogno di dirigenti e di gregari. In questo quadro inevitabile, a un certo punto compare la sopraffazione, anche se in forma attenuata e mascherata. Mi impressionava la lotta politica per prendere la testa del Movimento. Per me era tutto nuovo, il Sessantotto fu una scuola severa e quotidiana, un dovermi orientare tra concetti e situazioni che non conoscevo, che non capivo.

3)     Ancora su questo aspetto, un altro tema del romanzo che vi accosterei è il binomio vita/morte che contraddistinse l’esistenza umana “in tempo di guerra”, la cui eredità simbolica proiettò un’ombra lunga sui decenni successivi. Che ruolo giocò un simile fardello memoriale e narrativo nelle coscienze dei giovani contestatori sessantottini? Quanto di un tentativo di riscatto generazionale è possibile rintracciare nei fatti di Valle Giulia, nella sua violenza e nel suo riportare la lotta politica a scontro, ad offesa fisica?

 

È stato poco sottolineato, ma credo che il riferimento storico diretto del Sessantotto in certi momenti sia stato la Rivoluzione d’Ottobre, col suo carico di violenza di massa. In La vita in tempo di pace è il protagonista monologante a porsi il problema della conoscenza di sé in tempo di pace. La Guerra e la Resistenza erano molto presenti nella fiction di quegli anni, ma non mi sento di affermare che possano aver avuto un’influenza sulla scelta di andare allo scontro fisico con i rappresentanti dello Stato. Come dice un personaggio del libro, si trattava di «alzare il livello dello scontro», cioè di uscire dalle università e manifestare nello spazio urbano e in quello della civitas la propria esistenza di soggetto politico rivoluzionario. Mi rendo conto che il linguaggio che sto usando è completamente estraneo al presente, dove non esiste un’idea qualsiasi di rivoluzione. Però il nostro orizzonte mentale la prevedeva, o almeno l’ipotizzava, usandola come riferimento dell’agire politico. Per questo era necessaria la violenza, cioè lo scontro con le forze di polizia che presidiavano il teatro urbano di quegli anni, ma anche di quello di oggi. La non violenza era «stimata» come un’opzione rispettabile e in fondo affine a certi temi del movimento, ma allo stesso tempo era respinta perché la difesa passiva, benché fosse qualche volta praticata, era alla lunga considerata perdente. Non so, La vita in tempo di pace non è un libro sul Sessantotto. E in ogni caso il clima del Sessantotto, almeno per me, non è all’oggi comunicabile. Nel libro ci ho provato, ma non posso dire di essere del tutto convinto del risultato.

 

4)     Un aspetto che mi è parso centrale della tua scrittura è il peso dato alla topografia, e in genere all’elemento spaziale, da intendersi, mi pare, in senso intrinsecamente fisico. Mi tornano in mente le pagine di chiusura del tuo romanzo, in cui Ivo Brandani osserva dal finestrino di un aereo il disastrato territorio-cadavere della Penisola, le sue lacerazioni, le sue menomazioni. Lo spazio geografico ci appare riflesso fedele della presenza di uno specifico umano, che ne condiziona le forme ma ne è al contempo condizionato. È possibile pensare attraverso detto paradigma il nostro Sessantotto? Che ruolo ha giocato lo spazio fisico e dunque spirituale delle nostre città, delle nostre periferie, nell’evolversi dei moti di protesta? Esiste in questo senso un’italianità fisica, geografica della contestazione nel nostro paese?

 

A causa della mia formazione di architetto sono sensibile ai segni che lasciamo sul territorio, nella convinzione che per comprendere lo spazio sociale sia necessario anche saper leggere l’organizzazione dello spazio fisico, che sia urbano, sub-urbano, agricolo, naturale o sub-naturale. Dall’aereo si percepiscono, talvolta si capiscono, tante cose. L’italianità fisica, come tu definisci la specificità spaziale delle nostre città e forse anche le nostra scarsa tradizione di moti di piazza, spontanei e popolari, impedì, forse con l’eccezione del solo episodio di Valle Giulia, il formarsi di un’epica rivoluzionaria paragonabile a quella del Sessantotto francese, dove lo spazio ampio e lineare del boulevard sembrava fatto apposta per lo scontro frontale, la barricata, l’attacco, la difesa, il disimpegno. A Valle Giulia lo spazio, molto ampio, molto articolato e su più livelli, effettivamente giocò un ruolo decisivo nella costruzione, sia degli scontri, che del loro successivo mito. Non solo. A una certa distanza, sulla sponda del viale opposta al versante della collina dove si svolgeva la battaglia, c’era una grande scalinata da dove si poteva assistere alla battaglia senza farvi parte. Molti giovani uscirono dalle scuole medie e vennero a vedere quello che stava accadendo. E accadeva che i figli della borghesia cittadina si battevano contro i poliziotti, cosa fino a allora praticamente mai vista. Che i poliziotti fossero figli del popolo era un dato secondario rispetto al fatto che erano armati e che in quel momento rappresentavano lo Stato. Quando il corteo giunse ai piedi della scarpata della Facoltà di Architettura, che era stata sgomberata credo il giorno prima dalla polizia, attraverso il megafono si invitarono i poliziotti, molto spaventati a dire la verità, a farsi da parte. Lo scontro che seguì fu molto concreto, 150 feriti, ma soprattutto fu fortemente simbolico.

 

5)     Vorrei chiudere con un accenno a quanto del Sessantotto può venir inteso dalle giovanissime generazioni. In tempi di esasperato consumo d’ogni dato culturale e informativo, mi sembra che il rischio principale sia la perdita di un’autentica prospettiva storica, evolutiva sui fatti e sulle tematiche, ridotti ad episodi frammentari, all’estemporaneità d’una fruizione compressa sul presente. Una delle maggiori qualità della tua scrittura sta proprio nel riuscire a far emergere una vertiginosa verticalità storica, uno squarcio omogeneo da cui intendere il drammatico divenire della società italiana negli ultimi settant’anni. Eppure, il tuo romanzo lo si è descritto come “non adatto ad un pubblico giovane”. Come parlare, dunque, in maniera altrettanto efficace della contestazione alle nuove generazioni? Cosa del Sessantotto dovrebbe effettivamente interessar loro? Può una visione letteraria disincantata e “senza perdono” rivelarsi funzionale, determinante il buon esito d’una comunicazione transgenerazionale su simili temi?

 

A essere sincero non mi sono mai posto un problema di comunicazione con il lettore, soprattutto con il lettore giovane. Cioè ci ho ragionato molto in fase di progettazione del libro e alla fine ho capito che dovevo scrivere e basta, senza preoccuparmi di chi mi avrebbe letto. Nel corso del mio apprendistato come scrittore, che ancora dura, sono arrivato alla conclusione che mentre scrivi il lettore non deve esistere. Con altrettanta sincerità aggiungo che a mio avviso non esiste un modo efficace, con esclusione di una fiction ben fatta o di un video-gioco, per comunicare alle generazioni nate e cresciute in questo secolo l’essenza storica, peraltro ancora molto controversa, dei fatti del Sessantotto e del decenni che ne seguì. Già è difficile comunicare il concetto stesso di politica, di democrazia rappresentativa, di messa in comune degli interessi e delle visioni per formare partiti: niente di tutto questo rientra nell’orizzonte percettivo dei sopravvenuti. Viviamo in una società che conserva tracce consistenti di Sessantotto, ma anche di avvenimenti più profondi, fino alla Rivoluzione Francese, che è il vero Evento che ancora impregna di sé le società occidentali. I fascismi e parzialmente anche i comunismi sono solo episodi che galleggiano sull’onda lunga di quella rivoluzione, rispetto alla quale persino la Rivoluzione del ’17 è secondaria, figuriamoci quella fascista del ’21. Nel presente c’è molto di tutto questo, ma non viene percepito e direi che non è percepibile. Lasciare che un avvenimento di 50 anni fa, per quanto importante e carico di conseguenze, scivoli nell’oblio, mi sembra saggio e per molti versi umano e naturale. Del resto come trasmettere con precisione ai nuovi nati il fatto che, per esempio, eravamo comunisti? Cos’era un comunista?

Categorie: Storia

0 commenti

Lascia un commento

Segnaposto per l'avatar

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi