Uscirà a febbraio 2019 un romanzo che, idealmente, chiude una triade (non una trilogia) aperta nel 2011 con Il demone a Beslan e proseguita nel 2015 con Il giardino delle mosche. Non mette conto, ora, di parlare di questo libro nuovo, e nemmeno forse di annunciarne titolo ed editore. Ci sarà tempo per tutto questo. Adesso è tempo di fare un altro ragionamento, di dire qualcosa di cui mi sono reso pienamente conto in anni relativamente recenti, e che non ha a che vedere soltanto con quanto ho scritto dentro i romanzi che compongono questa triade, ma con quasi ogni cosa che ho scritto e pubblicato da quel 2011.
Quando, nel 2007 o nel 2008, cominciai a immaginare quello che sarebbe diventato Il demone a Beslan, avevo in mente di raccontare la storia che ho finito per raccontare e, soprattutto, avevo in mente il modo attraverso cui volevo raccontarla. Ma, per così dire, mi fermavo lì, al libro che mi stava nascendo dalle mani e che ancora oggi considero il mio libro più importante.
Tra il Demone e il Giardino – che è la seconda tappa di questo piccolo viaggio – ho curato la traduzione di Diavoleide di Michail Bulgakov e ho pubblicato La buona morte, un reportage sull’eutanasia. La buona morte è stato scritto in contemporanea con il Giardino: vale a dire che, durante la stesura del romanzo, ho preso una pausa e ho scritto il reportage. Le bibliografie di questi due libri, in modo solo apparentemente sorprendente, coincidono per larghi tratti. Come è possibile?, si chiederà forse qualcuno. È possibile: dopotutto, al di là di quel che si può dire intorno a questi due libri, si tratta di opere che hanno a che vedere in modo piuttosto diretto con l’idea di morte. Ma non solo: La buona morte contiene una piccola parte autobiografica e una serie di riflessioni sulla letteratura che fanno di questo libro il laboratorio per così dire pubblico del Giardino delle mosche. Ecco, forse tutto nasce proprio durante la pausa che, quattro o cinque anni fa, mi presi dalla scrittura del Giardino per realizzare questo reportage: scrivendo di eutanasia, mi resi improvvisamente conto che non stavo, dopotutto, scrivendo un libro diverso dal Giardino, e che i temi e gli argomenti e la voce che stavo usando per La buona morte erano parenti stretti dei temi, degli argomenti e della voce che avevo usato nei romanzi. Nella Buona morte facevo, per così dire a carte scoperte e senza troppi artifici narrativi, quello che avevo fatto nei due romanzi: usavo tutta la letteratura di cui ero capace per affrontare la morte, il dolore (mio e degli altri). Se rileggo dei passi di quel reportage, vi trovo quasi letteralmente gli appunti che nei mesi precedenti avevo preso per la mia storia su Čikatilo. Insomma: nella Buona morte, per chi lo sa leggere, c’è il making of del Giardino. La differenza sostanziale tra le due opere, per me, è che nel romanzo non ci sono io in prima persona: è come se, in quegli anni, io avessi scritto un’opera molto lunga che parla di morte, di questioni politiche, di me, di mio nonno e della mia famiglia, della paura e dell’orrore e l’avessi spaccata in due – da una parte un romanzo che per certi versi può essere definito “storico”, dall’altra un’opera autobiografica.
Lo stesso meccanismo si è ripetuto un’altra volta: quando, nel 2014, cominciai a raccogliere i materiali e a immaginare il romanzo che uscirà nel prossimo febbraio – ed ero ormai consapevole che almeno tre delle mie opere (le più importanti) erano parenti stretti e, in qualche modo, sapevo che il romanzo che avrei scritto doveva ampliare questa famiglia – non avevo in mente di concepire e scrivere Il peso del legno. Invece, di nuovo, la stesura del romanzo, a un certo punto, si è interrotta, e dalla penna è uscito un saggio narrativo, fortemente autobiografico e colmo di riflessioni sulla letteratura e sullo scrivere. Nel Peso del legno, come mi era già accaduto, c’è il laboratorio del libro che verrà: sotto il cappello di una ricerca – che è letteraria, biografica e di senso – io racconto come è nato il romanzo nuovo, e lo racconto mentre lo sto ancora scrivendo.
Va da sé, poi, che i tre romanzi che, come dicevo, compongono una triade ma non una trilogia, dialoghino incessantemente tra loro: è evidente che hanno temi affini, ambientazioni affini (anche se in questo nuovo le cose cambiano un po’), voci affini; soprattutto, è evidente che sono costruiti su voci narranti che, ciascuna a suo modo, vengono “disturbate”, su punti di vista incerti e fallibili, su riscritture e rimuginamenti. Insomma, i tre romanzi sono fratelli, ma ci sono almeno due cugini che fanno loro il controcanto, e lo fanno mettendo in scena l’autore, che per forza di cose nei romanzi rimane nascosto.
A chi mi ha chiesto e mi chiede perché il Giardino o il romanzo nuovo siano scritti nel modo in cui sono scritti, ho dato e do molte risposte, ma da febbraio 2019 potrò darne una in più (ed è quella, sospetto, più corretta di tutte): perché nessuno dei miei libri è un’opera sola, isolata, ma è qualcosa che dialoga con il libro che l’ha preceduta e con quello che si è messo a nascere mentre l’opera di cui parlo veniva scritta. Nella mia visione, benché sia perfettamente consapevole che tutti i miei libri sono opere che si possono leggere in modo indipendente, leggere solo il Giardino o solo il Demone significa vedere soltanto una parte del problema, non la sua totalità. I libri sono tanti, l’opera è una.
Infine: mi sono accorto, scrivendo Il peso del legno, che questo piccolo libro sulla croce e il romanzo nuovo chiudono un percorso, un momento. Considero Il peso del legno, prima che un’opera letteraria o di pensiero o autobiografica, un’opera di bilancio: se ne rileggo dei passi, ci trovo me che, giunto a quarant’anni, faccio il rendiconto di chi sono stato e di cosa ho scritto e perché. È una sensazione fortissima che ho, e di cui non mi libero. Il lavoro di editing sul libro nuovo è stato massiccio: c’era qualcosa che non funzionava del tutto, e questo malfunzionamento era dovuto anche al fatto che forse, più o meno consciamente, non volevo tirar fuori certe cose che durante la revisione ho finito per tirar fuori. Ora il libro nuovo chiude un periodo davvero – e il bilancio di questa chiusura è già in libreria, sotto forma di saggio sulla croce.
Rimane da dire questo: non ho idea di cosa farò nel prossimo libro, quello che, se avrò modo, pubblicherò magari tra quattro o cinque anni. Non ne ho idea. Ma so che non potrà essere nel solco del Demone, o del Giardino, o del romanzo che esce tra poco. Non ha senso continuare quel tipo di indagine, e forse è giunto anche il momento di riflettere su quale operazione letteraria può nascere da questa piccola costellazione di libri parenti, e su quale sia la voce migliore, per me, per raccontarla. È come sapere che, tra un anno o forse due, ci sarà da ricominciare daccapo. E non c’è cosa più bella che mi possa capitare.
Narrativa
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