error_reporting(0); Lingue, modelli culturali. Intervista a Vera Lúcia de Oliveira – di Maristella Petti
Questa intervista segue l’incontro con Vera Lúcia de Oliveira che si è tenuto da Umbrò il 27 settembre 2017.
Il suo ultimo libro, “Ditelo a mia madre” (Fara Editore, 2017), è una raccolta di poesie che si collocano al confine tra la voce e il silenzio, tra la vita e la morte, ispirate dalla dolorosa impossibilità per una madre di immaginare gli ultimi istanti di vita del figlio. Possiamo dire che è questo lo scopo della sua poesia, mettere in comunicazione il concreto e l’intangibile spingendo la parola al di là dei suoi propri limiti?
Sì, per me lo è e lo è anche per i poeti e scrittori che amo di più, perché vivono la parola e la letteratura in questo modo radicale. Mi piace pensare che gli scrittori siano degli scienziati dell’anima. E lì fanno i loro approfonditi studi spinti dal desiderio di capire l’umano, di spingersi dove è possibile, fino all’ultimo confine, in cui la parola già non dice, lasciata indietro: la morte è afona.
Ci sono però altre frontiere e una di quelle che più mi ha affascinato è quella fra l’io e l’altro. Da piccola ho cominciato ad attraversare questa linea. Volevo essere ogni cosa, entrare e uscire da ogni persona e animale. Era una sorta di gioco, ma un gioco che spesso mi faceva stare male. Perché ero attratta soprattutto da coloro in cui avvertivo disagio o dolore. Quasi senza riflettere mi mettevo al loro posto, cercando di comprendere cosa avrei provato in quella stessa condizione. Il fatto è che questo a un certo punto mi ha causato grossi problemi e ho dovuto imparare a mantenere uno spazio di protezione identitario. Per me, la poesia è sempre stata fondamentale perché in questi viaggi esplorativi non partivo mai senza le parole e queste mi riportavano poi indietro.
Se è vero quanto insinuato dalla precedente domanda, possiamo riscontare nella sua poesia tratti cari tanto alla tradizione letteraria brasiliana (faccio riferimento, in particolare, alla prosa poetica di Guimarães Rosa) quanto a quella italiana (come affermato da Prisca Agustoni nella postfazione a “Ditelo a mia madre”: “la poeta recupera la concezione umanistica così cara alla tradizione lirica italiana della parola […] capace di salvarci dall’istinto barbaro che ci tortura e ci uccide ogni giorno”). Il che riporta alla sua condizione di brasiliana naturalizzata italiana e scrittrice bilingue. Come autrice, si sente appartenente più al panorama letterario brasiliano o a quello italiano?
Veramente non mi sento di appartenere completamente a nessuna delle due letterature, sono in mezzo, in un territorio scomodo. Quando ho iniziato a scrivere poesia in italiano (e non è stata una scelta, ma una inevitabilità), mi hanno detto (e non faccio nomi) che non era serio che io scrivessi in italiano, essendo madrelingua brasiliana. E ci sono rimasta male, perché in realtà non volevo scrivere in italiano, solo che le poesie mi venivano in questa lingua. E ho pensato anche che mi ero messa in una posizione difficile, perché in Brasile interessa solo quello che scrivo in portoghese e in Italia solo quello che scrivo in italiano. So però che c’è un filo che lega le raccolte una all’altra, ossia da una lingua all’altra c’è un certo filo che per me è coerente e che si perde se non si guarda l’insieme. Cosa fare allora? Quale lingua abbandonare? Nessuna, ho preso questa decisione diversi anni fa. Utilizzo le possibilità di entrambe, viaggio su entrambe e con entrambe. In certi territori posso entrare solo con l’italiano perché sento questa lingua come protettiva. E in italiano sono più libera, nel senso che tutta la tradizione poetica di lingua portoghese ha a che fare con una poesia che è molto concreta nei suoi legami con il mondo. Il poeta non è mai isolato e forse la poesia brasiliana in questo è ancora più vincolante. Ci deve essere un legame, un dialogo forte con il mondo, con la società e il paese. La lingua tocca le cose, si bagna, si sporca, si piega, si spezza. In certi contesti quindi l’italiano per me è fondamentale, tanto per allontanarmi da questo legame talvolta opprimente con il reale, quanto per avvicinarci ancora di più, spingermi fino a dove potrebbe essere pericoloso arrivare senza protezione e filtri.
Segue un criterio di selezione della lingua in cui scrivere, o è una scelta che le viene naturale? In quest’ultimo caso, sa riconoscere da quali condizioni scaturisce questa scelta?
Come dicevo, non scelgo la lingua, vengo scelta da essa, se così posso dire. Quando penso che una cosa la devo dire in portoghese, mi sorprende il fatto che non ci riesca. E non subito, la ritrovo elaborata nell’altra lingua.
Non scrivo poesie singole. Scrivo poco in realtà, non tutti i giorni come certi autori che conosco, che dicono che bisogna pensare a questo mestiere come un lavoro, con orari fissi in cui sedersi e scrivere. Ho già provato a farlo, ma poi guardavo il foglio bianco e non mi veniva nulla da dire. Allora ho capito che c’era dentro di me un altro tipo di elaborazione poetica, perché spesso mi fisso su delle idee, che scaturiscono dalla vita. E quando trovo qualcosa che mi colpisce mi ci ficco e posso passare mesi e anche anni con questo dentro, come una sorta di sasso indigesto che va da una parte all’altra in un flusso molto profondo. E cerco soluzioni, leggo, soprattutto certi autori, parlo con le persone, viaggio, finché questo sasso si rompe, si spezza e comincia a entrare in una fila di parole e a comporre un libro. Quando questi sassi-parole vengono in bocca, scopro che dietro ci sono tutti gli altri e mi prende la frenesia di scrivere, tutto fino all’ultimo verso. Spesso sono libri di cinquanta poesie (pare che sia la mia misura), poesie corte, senza titolo, senza punti e senza maiuscole. Formano dei libretti in cui c’è una tendenza a unire lirica e narrativa.
Nella misura in cui ogni lingua veicola una data cultura, possiamo supporre che a seconda della lingua parlata emerga una particolare sfaccettatura umana, come se ad ogni lingua corrispondesse una personalità prevalente della stessa persona. Lei nota in sé stessa delle differenze tra il suo io lirico brasiliano e quello italiano?
Non noto differenze nel mio modo di essere, ma certamente ci sono differenze culturali che devo rispettare. In Brasile i modelli culturali prevedono una maggiore espansività negli affetti. Anche le distanze fisiche contano, i brasiliani in genere si avvicinano di più mentre parlano, e si abbracciano e si baciano più spesso di quanto lo facciano gli italiani. E parlo dei rapporti normali, non necessariamente di coppia, ma anche quelli fra familiari, fra amici, ecc. Questo, però, ci porta a esporci di più, a “scoprirci”, insomma ad abbassare le difese. É stata per me la cosa più difficile. Perché in Italia in genere le persone alzano una barriera invisibile e la abbassano con molta circospezione. E, qui, mi adatto e faccio lo stesso, ma poi noto che in Brasile sono più libera in questo senso.
Ha dei poeti di riferimento, che considera in qualche modo maestri (ammesso che fare poesia possa essere insegnato)?
Ne ho tanti, appartenenti a molte lingue e letterature. Naturalmente, per me il massimo poeta di lingua portoghese è Manuel Bandeira, che mi ha insegnato non solo la poesia, ma la vita. Poi i poeti modernisti, come Mário de Andrade (che all’università è molto trascurato in funzione dell’importanza data alla sua narrativa), Carlos Drummond de Andrade, João Cabral, Lêdo ivo e tanti altri, fino ad arrivate ai contemporanei. Per quanto riguarda il Portogallo, Sophia de Mello Breyner, Eugénio de Andrade, Jorge de Sena, fino anche lì ad arrivare, pure lì, ai contemporanei. In Italia, Ungaretti, Sandro Penna, Giorgio Caproni e altri. Amo molto anche la narrativa e sono lettrice contumace di saggi di sociologia, antropologia, psicologia, ecc. Amo scrittori francesi, statunitensi, latinoamericani, ma soprattutto russi, una vera passione da quando ho letto per la prima volta, tanti anni fa, I fratelli Karamazov, di Dostoevskij.
Qual è la sua personale prospettiva sul futuro della poesia?
Non roseo purtroppo ma questo non vale solo per la poesia. La poesia è un tipo di arte considerata totalmente inutile anche da parecchi colleghi all’università (e anche qui non faccio nomi). Un po’ è colpa degli stessi poeti, che si sono a volte chiusi, per una sorta di ripicca contro l’ostracismo della società. E invece bisogna dialogare con il mondo, perché la poesia arriva forse dove nessun’altra forma di arte è capace di fare. La poesia permette questo. Lo stato poetico è una sorta di stato di coscienza allargata, puoi vedere di più, puoi sentire meglio, sembra che cammini dentro la luce. Poi bisogna tornare, purtroppo.
Anche per leggere poesia, bisogna predisporsi, aprirsi a un modo di rapportarsi al mondo in cui tutto il corpo e la coscienza entrano in gioco. Non spieghi una poesia. La vivi.
28 ottobre 2017
Maristella Petti (1992) è nata e cresciuta a Bolsena. Spostatasi a Perugia per studiare lingue, è ora specializzanda in letterature luso-brasiliana e inglese e traduzione editoriale. La sua area di maggior interesse riguarda il connubio politica-letteratura brasiliana. Lavora dal 2015 come addetta di biblioteca presso l’Università degli Studi di Perugia.
Categorie: Poesia

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